lunedì 6 febbraio 2017

EURO SI, EURO NO

Nuova pubblicazione della rubrica "Il Lampadiere", questa volta dedicata al dibattuto tema dell'Euro.

Ritorna con insistenza, nel dibattito politico, la questione sulla opportunità della nostra appartenenza alla euro zona. Ad insistere, nel senso dell’uscita, sono specialmente Salvini e ultimamente e con più chiarezza di prima, i 5 stelle (in particolare Di Battista mercoledì 7 dicembre).
Il modo e i termini con i quali è posta la questione è una ennesima dimostrazione della scarsa o nulla capacità di molta parte della attuale classe politica a comprendere la vera essenza dei problemi della nostra economia e dei percorsi possibili per un suo effettivo sviluppo. Proviamo a spiegarci.
Rispetto diciotto/venti anni fa -cioè dall’entrata in vigore dell’Euro- sono cambiate e di molto, alcune situazioni a livello mondiale, tali da incidere fortemente e in senso negativo sulle scelte che testardamente il nostro sistema economico occidentale continua a perseguire. Tali cambiamenti si aggiungono ai fattori determinati, rispetto la nostra economia, dall’entrata nell’Euro. In questa fase storica è successo e succede che un numero importante di paesi, in condizioni di sotto sviluppo o post coloniali, siano alla ricerca delle condizioni per attuare un vero e solido decollo economico.
Una parte di essi ha bisogno di materie prime, un’altra parte di prodotti energetici, altri ancora di prodotti alimentari, quasi sempre la necessità, per ognuno di essi, riguarda più di uno se non tutti gli elementi elencati. Tutti hanno, inoltre, esigenza di tecnologia e di know-how.
Tutti questi paesi sono in sostanza nella situazione in cui l’Italia si trovava dal dopo guerra fino al 2000; appunto fino all’entrata nell’Euro. Salvo che per la tecnologia, in parte e per talune componenti di know-how di cui l’Italia disponeva.
La necessità per questi paesi: esportare per acquisire valuta per importare il necessario. E’ contro questo muro di interessi che si scontrerebbe la politica economica italiana se oggi si uscisse dall’Euro.
Se prima dell’entrata nell’Euro noi potevamo trarre vantaggi concorrenziali da bassi salari, rispetto altri paesi industrializzati destinatari delle nostre esportazioni, ciò non ci è più possibile oggi in quanto non siamo più in grado di garantire la nostra capacità concorrenziale facendo leva appunto sui bassi costi del lavoro. Il lavoro di tanti altri, ossia dei paesi emergenti, costa meno e spesso molto meno. Del resto oltre venti anni di perdita di potere d’acquisto dei salari dei nostri lavoratori non ha aumentato di un enne la nostra concorrenzialità.
Abbiamo usato abbondantemente la svalutazione della Lira per competere nell’export, oggi ciò non è più possibile. A parte poi i risultati negativi, per l’insieme dell’economia non votata all’esportazione (il 70% circa dell’economia italiana), che tale politica ha determinato per anni; ogni svalutazione diminuisce automaticamente il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni; ossia la domanda interna di beni e servizi. Così è stato per il nostro Paese; così è in generale.
Inoltre i paesi nostri eventuali concorrenti non hanno quasi mai una base industriale loro, semmai insediamenti di paesi industrializzati finalizzati a sfruttarne i bassi costi del lavoro. La loro concorrenza sarà quindi sul costo del lavoro e sui prezzi di taluni prodotti di base là dove di questi disponessero. Ma anche se puntassimo ad acquisire (importare) e ad utilizzare questi loro prodotti a fini di interscambio con questi paesi, saremmo di fatto svantaggiati rispetto la maggiore potenza finanziaria delle multinazionali e delle imprese, più strutturate, degli altri paesi industrializzati. Ultimamente anche il made in Italy e diversi prodotti di élite, tipici della gamma delle nostre esportazioni, sembrano avere non pochi problemi a fronte dell’andamento dell’economia mondiale.
Allora cosa fare?
Ultimamente sembra ci sia qualche folgorato sulla strada di Damasco.
Ovvero da parte di qualcuno si comincia a comprendere, ma sono ancora voci flebili e indecise, che c’è una strada sola percorribile per noi: lo sviluppo del mercato interno attraverso il deciso potenziamento della domanda interna.
Questo però non può essere conseguito con provvedimenti tampone, con scelte contingenti; servono scelte effettivamente strutturali e non pseudo riforme che di strutturale hanno solo l’aggettivo che viene loro affibbiato da quella congrega di economisti da bar sport che da ormai troppo tempo si trovano a dirigere la nostra economia.
La scelta più urgente è quella di rilanciare, a tempi brevi, la domanda interna; ma non una domanda indefinita. Una domanda i cui effetti siano a tempi rapidi o rapidissimi; cioè non avente effetto solo a distanza di anni. Una domanda di beni di consumo e di tecnologia per taluni investimenti; di infrastrutture strategiche e di progetti organici per l’ambiente. E’ la domanda delle famiglie, delle PMI, degli Enti locali che deve avere la precedenza assoluta nell’uso delle risorse. Delle risorse disponibili e di quelle accumulabili con una più appropriata politica di lotta alla evasione e alla elusione fiscale.
Dobbiamo inoltre avere presente che taluni termini usati e abusati nel linguaggio corrente, specie ultimamente, se non declinati in senso giusto, saranno sempre e solo parole vuote. Innovazione, crescita, investimenti, competitività, se non debitamente esplicitati e riempiti di contenuti programmatici sono solo parole vuote, specchietti per le allodole. E mi sembra che l’aria che tira in Italia (vedasi il risultato del referendum) e in altre parti del mondo, dimostri che ormai di allodole in giro ce ne sono sempre meno e che i cittadini stanno prendendo coscienza che occorre cambiare radicalmente lo stato delle cose. In che direzione dipenderà dalla capacità delle forze progressiste a tracciare una giusta rotta, ma in stretto rapporto con i cittadini stessi e le loro forme di aggregazione sociale. In Italia ciò significa innanzi tutto piena applicazione della Costituzione.

Nessun commento:

Posta un commento